Certificazioni verdi Covid-19 per viaggiare – per turismo – nei territori collocati in zona arancione o rossa. Saranno ottenibili – a richiesta dell’interessato, in formato cartaceo o digitale – a tre condizioni (alternative): avvenuta vaccinazione contro il SARS-Cov-2, tampone (molecolare o antigenico rapido) negativo al virus, avvenuta guarigione da Covid-19, con contestuale cessazione dell’isolamento.
Nessun pass sarà necessario, invece, per gli spostamenti in entrata ed in uscita tra Regioni o Province autonome che si trovano in zone bianche e gialle, la cui disciplina meno restrittiva – dopo il “blocco” pasquale disposto col precedente Dl Covid n. 44/2021 – è stata contestualmente ripristinata per effetto dell’articolo 1 del decreto “Riaperture” (sul punto in vigore da lunedì 26 aprile). E resta ferma la possibilità di muoversi nelle aree rosse ed arancioni per le consuete ragioni giustificative (motivi di salute, esigenze lavorative, situazioni di necessità e rientro nei luoghi di residenza, domicilio o abitazione), da autocertificare con l’apposito modulo, con conseguente sanzionabilità penale in caso di mendacio in riferimento all’articolo 76 del Dpr n. 445/2000 sulle ragioni degli spostamenti, ad esclusione delle mere “intenzioni” (che non rientrano nell’orbita dell’articolo 483 del Cp: vedi NT Plus Diritto del 21 dicembre 2020).
Per espressa previsione legislativa, l’odierno “lasciapassare” nazionale resterà efficace «fino alla data di entrata in vigore degli atti delegati per l’attuazione delle disposizioni di cui al regolamento europeo e del Consiglio» sul passaporto vaccinale digitale. L’esecutivo anticipa così, a livello nazionale, l’introduzione del green pass europeo destinato ad agevolare la circolazione delle persone, libera e sicura, all’interno dell’Unione durante la pandemia da Covid-19. Uno strumento su cui il 13 aprile scorso è iniziato il dibattito nella Commissione sulle Libertà civili del Parlamento europeo – che sta seguendo la procedura d’urgenza (deliberata dalla plenaria del 25 marzo) – mentre il confronto in sede di Consiglio Europeo con i capi di Stato e di Governo della UE è previsto per il 26-29 aprile prossimi.
Secondo il Commissario per la giustizia, Didier Reynders, il passaporto vaccinale unionale dovrebbe essere operativo prima dell’estate, dopo i necessari interventi infrastrutturali tecnici, mentre gli eurodeputati insistono sulla necessità di disporre di elevati standard di protezione dei dati, sin dalla progettazione, in linea con le norme in materia di privacy, nonché di definizioni chiare di chi sarà responsabile della raccolta e del trattamento dei dati del certificato (vedi il parere congiunto del GEPD e del comitato europeo per la protezione dei dati).
Sul fronte interno, intanto, il nostro Garante per la protezione dei dati personali – non interpellato preventivamente sulla norma di nuovo conio – denuncia gravi criticità sui pass vaccinali “domestici” appena varati, tali da inficiare la validità stessa e il funzionamento del sistema previsto per la riapertura degli spostamenti durante la pandemia (vedi comunicato stampa diramato oggi). In un avvertimento formale, adottato ai sensi del Regolamento Ue e già trasmesso al Presidente del Consiglio dei ministri, per le valutazioni di competenza, ed a tutti i ministri, l’Autorità sulla privacy richiede un intervento urgente modificativo a tutela dei diritti e delle libertà delle persone.
Il Certificato Verde Covid-19
Ai sensi dell’articolo 9 del Dl Riaperture la Certificazione verde Covid-19 servirà per attestare una delle seguenti condizioni ai fini degli spostamenti tra Regioni (o Province autonome) rosse o arancioni ed avrà diversa validità a seconda della casistica:
a) avvenuta vaccinazione anti-SARS-CoV-2, al termine del prescritto ciclo (comprensivo di richiamo, se previsto). In questo caso il pass ha sei mesi di validità ed è rilasciato dalla struttura sanitaria ovvero dall’esercente la professione sanitaria che effettua la vaccinazione e (a regime) «contestualmente alla stessa»;
b) avvenuta guarigione da Covid-19, con contestuale cessazione dell’isolamento prescritto in seguito ad infezione da SARS-CoV-2. Anche in questo caso la validità è di sei mesi a far data dall’avvenuta guarigione ed il rilascio compete (a regime) alla struttura presso la quale è avvenuto il ricovero del paziente affatto da Covid-19, ovvero, per i pazienti non ricoverati, ai medici di medicina generale e ai pediatri di libera scelta.
c) effettuazione di test (rapido o molecolare) con esito negativo al virus SARS-CoV-2. In quest’ipotesi la validità è assai più ridotta, in ragione dell’istantaneità della situazione rilevabile dallo strumento: 48 ore «dall’esecuzione del test» (ma la norma qui sembra non considerare, a questi effetti, che gli esiti del test molecolare – a differenza dell’antigenico rapido – pervengono a distanza di ore dall’esecuzione, a seconda della tempistica del laboratorio, NdA).
In tutti e tre i casi il pass è rilasciato «a richiesta dell’interessato, in formato cartaceo o digitale».
Quanti abbiamo già completato il (doppio) ciclo vaccinale, dovranno rivolgersi per il rilascio del pass alla struttura che ha erogato il trattamento sanitario oppure – prevede (genericamente) il comma 7 dell’articolo 9 – «alla Regione o Provincia autonoma in cui ha sede la struttura stessa».
In funzione di reciprocità, il comma 8 dell’articolo 9 del Dl n. 52/2021 riconosce le certificazioni verdi Covid-19 rilasciate dagli Stati membri dell’Unione europea «come equivalenti a quelle disciplinate» dall’odierno decreto e valide ai fini dello stesso – id est: di libera circolazione tra zone rosse e arancioni – purché «conformi ai criteri definiti con circolare del Ministero della salute». Analogamente, alle stesse condizioni, sono riconosciute le certificazioni rilasciate da uno Stato terzo extra-Ue a seguito di una vaccinazione riconosciuta dall’Unione europea e validate da uno Stato membro.
Sanzioni penali in caso di falsità
L’articolo 13, comma 2, del Dl n. 52/2021 prevede espressamente che «alle condotte previste dagli articoli 476, 477, 479, 480, 481, 482, 489, anche se relativ[e] ai documenti informatici di cui all’articolo 491-bis, del codice penale, aventi ad oggetto le certificazioni verdi COVID-19 di cui all’articolo 9, comma 2, si applicano le pene stabilite nei detti articoli».
La disposizione – dalla quale è definitivamente scomparsa l’aggravamento di un terzo che circolava nelle prime bozze del Decreto – sembra avere valore meramente esornativo essendo priva di reale portata innovativa o di disciplina. È infatti del tutto evidente come l’eventuale falsità delle certificazioni verdi di nuovo conio – commissibili dagli esercenti la professione sanitaria (su verosimile istigazione del privato), ovvero esclusivamente dal privato (mediante, ad esempio, alterazione della data di validità) – sarebbe stata punibile ai sensi delle vigenti disposizioni codicistiche poste a presidio della fede pubblica.
Né vi sarebbe stato alcun vuoto di tutela penale in ragione del previsto rilascio del pass in formato digitale, attesa l’equiparazione prevista dall’articolo 491-bis del Cp («Se alcuna delle falsità previste dal presente capo riguarda un documento informatico pubblico avente efficacia probatoria, si applicano le disposizioni del capo stesso concernenti gli atti pubblici»), a suo tempo introdotto dal legislatore del 1993 proprio per parificare il documento informatico agli atti cartacei tradizionali, onde non mutare la struttura delle fattispecie in funzione della sola diversità dell’oggetto materiale (sulla nozione extrapenale di riferimento vedi l’articolo 1, lettera p, del Dlgs n. 82/2005, come modificato dal Dlgs n. 159/2006, secondo cui il documento informatico è la «rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti», prescindendosi, dunque, dall’incorporazione dei dati in un oggetto materiale, con conseguente rilevanza penale dei falsi che abbiano ad oggetto informazioni anche non registrate su alcun supporto materiale).
Invero, come ha chiarito la giurisprudenza (vedi Cassazione, sezione V penale, n. 12576/2013), l’articolo 491-bis del Cp riguarda tanto nell’ipotesi in cui il sistema informatico sia supportato da riscontro cartaceo quanto quella in cui – come nel caso del Certificato Verde Covid-19 – sia del tutto sostitutivo di quest’ultimo.
Le gravi criticità rilevate dal Garante sulla privacy
Nel senso della necessità di una legge nazionale istitutiva del passaporto vaccinale si era espresso, con comunicato del 1° marzo scorso, il Garante per la protezione dei dati personali il quale aveva rimarcato per tempo come il trattamento dei dati relativi allo stato vaccinale dei cittadini a fini di accesso a determinati locali o di fruizione di determinati servizi debba essere oggetto di una disciplina legislativa conforme ai principi in materia di protezione dei dati personali: in particolare, quelli di proporzionalità, limitazione delle finalità e di minimizzazione dei dati, in modo da realizzare un equo bilanciamento tra l’interesse pubblico che si intende perseguire e l’interesse individuale alla riservatezza. Ciò in quanto i dati relativi allo stato vaccinale «sono particolarmente delicati e un loro trattamento non corretto può determinare conseguenze gravissime per la vita e i diritti fondamentali delle persone: conseguenze che, nel caso di specie, possono tradursi in discriminazioni, violazioni e compressioni illegittime di libertà costituzionali».
Nel comunicato stampa in data odierna il Garante per la privacy esclude però che il Decreto Riaperture garantisca una base normativa idonea per l’introduzione e l’utilizzo dei certificati verdi su scala nazionale: in contrasto con quanto previsto dal Regolamento europeo in materia di protezione dei dati personali, «il decreto non definisce con precisione le finalità per il trattamento dei dati sulla salute degli italiani, lasciando spazio a molteplici e imprevedibili utilizzi futuri, in potenziale disallineamento anche con analoghe iniziative europee. Non viene specificato chi è il titolare del trattamento dei dati, in violazione del principio di trasparenza, rendendo così difficile se non impossibile l’esercizio dei diritti degli interessati: ad esempio, in caso di informazioni non corrette contenute nelle certificazioni verdi».
Altra criticità segnalata dall’Autorità garante sulla privacy sta nell’utilizzo eccessivo di dati sui certificati verdi COvid-19 da esibire in caso di controllo, in violazione del principio di minimizzazione. «Per garantire, ad esempio, la validità temporale della certificazione, sarebbe stato sufficiente prevedere un modulo che riportasse la sola data di scadenza del green pass, invece che utilizzare modelli differenti per chi si è precedentemente ammalato di Covid o ha effettuato la vaccinazione. Il sistema attualmente proposto, soprattutto nella fase transitoria, rischia, tra l’altro, di contenere dati inesatti o non aggiornati con gravi effetti sulla libertà di spostamento individuale. Non sono infine previsti tempi di conservazione dei dati né misure adeguate per garantire la loro integrità e riservatezza».
Il tema della possibile discriminazione indiretta
Ferme le (condivisibili) criticità appena esposte – su cui si dovrà intervenire in sede di conversione del Dl in commento (oltreché in sede attuativa) – l’altro grosso tema che si pone rispetto all’inedito strumento odierno riguarda la possibile discriminazione indiretta che determinerebbe a danno di chi non è stato immunizzato.
Si tratta di una questione postasi già in Gran Bretagna e che sta accompagnando il dibattito dell’europarlamento sul passaporto vaccinale europeo (durante il dibattito in plenaria del 24 marzo scorso con i rappresentanti della Commissione e del Consiglio, molti europarlamentari, nel sottolineare la necessità di forti garanzie di protezione dei dati sui dati personali e sanitari, hanno anche avvertito che coloro che non sono stati vaccinati non devono subire discriminazioni).
Avuto riguardo al campo di applicazione – circoscritto – dell’articolo 9 del Dl in esame, sembrano da escludersi profili di irragionevolezza fondati su condizioni personali o sociali dovute alla disponibilità del vaccino anti-Covid-19 (non obbligatorio, se non per gli esercenti la professione sanitaria, e allo stato disponibile per le categorie a rischio).
Anzitutto perché la certificazione verde Covid-19 è misura temporanea, che sarà presto sostituita dal pass vaccinale europeo di (futuribile) più ampia operatività. Inoltre essa non è misura esclusiva a fini di libera circolazione tra regioni rosse o arancioni, perché – come visto – resta fermo lo strumento dell’autocertificazione necessario per causali di più solido fondamento giustificativo (quali salute e lavoro) rispetto a quelle turistiche.
Infine il pass vaccinale è rilasciabile – sia pure con validità limitata – anche all’esito di tampone negativo, cioè a strumento diagnostico cui chiunque si può sottoporre (al di là della fascia anagrafica di appartenenza o di rischio). Il che, semmai, sotto altro profilo, espone in parte qua la previsione di nuovo conio a perplessità di carattere scientifico (il virologo Roberto Burioni sui social nei giorni scorsi ha dichiarato: «Leggo che si consentirebbe libertà a chi ha un tampone negativo nelle 48 ore precedenti per prevenire il Covid. È come consentire rapporti sessuali non protetti a chi si è infilato un profilattico nelle 48 ore precedenti per prevenire l’Aids. Non ha alcun senso razionale»).